notizie storico-critiche | La provenienza romana del dipinto è stata accertata da A. Civai, 1990, p. 101 nota 68. L'Abate Domenico Martelli lo acquistò come opera di Jan Miel il 4 gennaio 1753 dal mercante d'arte e suo frequente fornitore Giovanni Barbarossa, che gli fornì, per una cifra totale di 44 scudi, anche altri due piccoli dipinti, un San Rocco che cura gli appestati su rame del Poccetti e una Marina su tela del Manglard. Non è nota la valutazione del piccolo dipinto al momento dell'acquisto, poiché la scritta presente sul verso si riferisce ad una transazione precedente, come già notato da A. Civai, e forse servì a determinare il prezzo finale. L'attribuzione antica al Miel si accorda con i dati dello stile, che accostano il rame alla tarda produzione romana dell'artista, ormai affermatosi anche come pittore di opere sacre, oltre che come pittore bambocciante e membro della variegata schiera di nordici più o meno di passaggio nella capitale papale del Seicento, di solito interessati a soggetti tratti dalla vita popolare o al paesaggio. Una lettura del testo pittorico pare confermare, sia dai dati iconografici che da quelli stilistici, l'ambito romano del dipinto. Alla figura del Santo, atteggiato in una posa di classico contrapposto ed equilibrio ed abbigliato nel costume da pellegrino (mantello, calzari, cappello e bastone), fa da sfondo la mole del Mausoleo di Adriano o Castel Sant'Angelo, con il ponte che lo collega all'opposta riva del Tevere ancora privo delle statue del progetto berniniano del 1669. Sulla vetta del monumento pare rimarcata la figura dell'angelo collocata a coronamento dal Papa. Questa notazione è strettamente legata all'iconografia del dipinto, poiché, se San Rocco è il patrono protettore dalla peste, Castel Sant'Angelo deve il suo nome moderno alla visione miracolosa di un angelo che sarebbe apparso al Papa Gregorio Magno proprio in cima al Mausoleo di Adriano nel 590 d.C., a segnare la fine di una terribile epidemia di peste. Il piccolo quadro pare pertanto un memoriale di un analogo evento, e scorrendo le date della biografia del Miel non è difficile trovare un appropriato periodo per l'esecuzione. Basterà ricordare la grande peste del 1656, che mieté migliaia di vittime, dopo la quale il Miel abbandonò definitivamente Roma per Torino, chiamatovi da Carlo Emanuele II di Savoia (1658) per divenire poi pittore di corte. Dal punto di vista stilistico, il Miel da un lato qui denota la sua formazione bambocciante, nell'arioso e luminoso paesaggio dello sfondo e nella bella e naturalistica figura del cane, dallo sguardo lustro e dal muso intelligente proteso verso il suo padrone; dall'altro, nel bilanciato equilibrio della posa e nei volumi idealizzati, mostra la capacità di un linguaggio alto, di matrice sacchiana, di cui portano un segno ancor più deciso quadri di storia più tardi, come il Clodoveo assistito da San Remigio riceve da un Angelo lo scudo con i gigli i a Torino, Palazzo Reale, (eseguito per la decorazione della Camera dell'Alcova della Duchessa, poi del Duca di Savoia, poco prima del 1663; A. Cottino, p. 32, ill.). Quest'ultimo dipinto , nella posa solenne della figura del re, è particolarmente affine al nostro piccolo San Rocco. Formatosi in patria, nelle Fiandre, probabilmente nella bottega del caravaggesco e rubensiano Gherard Seghers (1591-1651), e forse del van Dyck, ma a Roma dal 1636, Jan Miel seguì gli interessi dei pittori bamboccianti. Tuttavia egli coltivò ben presto anche l'aspirazione all'arte monumentale, aggiornando il suo stile con lo studio del Correggio e di Pietro da Cortona e la frequentazione della scuola di Andrea Sacchi. Già negli anni romani, dunque, la sua produzione affianca alle scene tipiche dei bamboccianti nordici (popolani, zingari, pastori, animali) cicli monumentali di importante committenza, come quelli ora perduti un Santa Teresa alla Lungara per i Barberini, e quelli nelle chiese di San Martino ai Monti, Santa Maria dell'Anima e San Lorenzo in Lucina. Dipinge perfino (1656-57) nella Galleria di Alessandro VII Chigi nel Palazzo del Quirinale. Tale versatilità di intenti e risultati è evidente anche nella fase piemontese della sua carriera artistica, in particolare nella decorazione della Sala di Diana alla Venaria Reale (compiuta tra il 1658 ed il 1663) , ove a paesaggi popolati di cacciatori e di animali si affiancavano grandi ritratti di gruppo in paesaggi, ritratti equestri e mitologie.Certamente l'abilità del Miel nel muoversi tra diversi piani espressivi, o come dice il Lanzi (XI, p. 161) tra "pitture facete" e "pitture serie" fu alla radice delle sue fortune di "ornamento e sostegno" (Lanzi) della neonata Società di San Luca di Torino. Sul dipinto si veda Huys Jansen P./ Squellati Brizio P., Repertory of the Dutch and Flemish Paintings in Italian Public Collections. Tuscany in corso di stampa. |