notizie storico-critiche | L'enorme tavola, giunta a Brera nel 1811, è la più grande della Pinacoteca e tra quelle di maggiori dimensioni al mondo. Firmata in basso a destra sotto il piede di san Gerolamo, fu realizzata fra il 1524 e il 1526, dal pioore bresciano allora residente a Venezia, per l'altare maggiore della chiesa conventuale di San Domenico a Pesaro. Il contratto stipulato il 15 giugno 1524 fra Gerolamo Savoldo e Innocenzo da Imola, frate priore del convento domenicano, comprendeva anche l'esecuzione di una "Pietà di Nostro Signore Yhesu Cristo",concordemente identificata con " Cristo morto sorretto da Giuseppe d'Arimatea", ora presso il Cleveland Museum of Art di Cleveland, che doveva essere posta al di sopra della pala come cimasa. Era prevista anche una predella, ormai perduta, costituita da due "quadricti" (cioè due piccoli dipinti), il cui soggetto era lasciato alla discrezione del Savoldo, e da uno sportello, dove riporre il Santissimo Sacramento, decorato con una testa di san Pietro Martire. Il contratto dava al Savoldo anche precise indicazioni iconograficherelative alle figure dei santi e della Madonna, alle quali il pittore si attenne con qualche licenza, per esempio nelle posizioni dei due santi Domenico e Paolo, nel raffigurare accanto alla Vergine due angeli musicanti, invece di uno, e nell'inserire al centro della composizione lo splendido paesaggio, identificabile con venezia vista dalle Fondamenta Nuove. Quest'ultimo fu realizzato tuuto di getto, senza disegno preparatorio, come hanno rilevato le indagini riflettografiche esguite in occasione del restauro. Pittore lento e meticoloso, come attestano le fonti, il savoldo fu in contatto con i più affermati intelletuali del tempo; lo dimostra anche l'elenco dei testimoni all'allogazione del contratto per la Pala pesaro, fra cui sono annoverati Pietro Matteo I, membro di una delle famiglie più cospicue di Pesaro, consigliere della città dal 1509 al 1512, e amico di Baldassarre Castiglione, nel cui epistolario è più volte citato; il bolognese Marco Antonio Cavazzoni, uno dei compositori più affermati del tempo, ricordato da Eleonora Gonzaga, moglie del duca di Urbino, come "mio musico", protetto anche dal cardinale Francesco Correr e musico di papa Leone X. nell'altissimo panorama della cultura figurativa veneziana del primo Cinquecento, la produzione del Savoldo si distingue soprattutto per essere incentrata sul problema della luce artificiale e naturale, che il recente restauro della Pala di Pesaro ha confermato essere il nodo portante delle sue composizioni. In alto la luce si irradia attorno alla Vergine e al Bambino dall'infinito affollarsi delle teste dei serafini, mentre in basso le figure dei quattro maestosi santi sono immersi nella luce terrena della laguna veneziana: Pietro, fondatore della Chiesa e Domenico, fondatore dell'ordine che commissionò l'imponente pala, a sinistra; Paolo e Gerolamoa destra. sul retro della tavola, che si ha avuto l'opportunità di rivedere in occasione del restauro 2002-2004, sono visibili diverse scritte che registrano gli spostamenti dell'opera: la data più antica, 1646, è forse riferibile al rifacimento barocco della chiesa, che comportò lo smontaggio della cimasa e della predella, il suo spostamento e la modifica del formato; l'anno 1797 rimanda all'inizio dei restauri della chiesa domenicana, che comportò la collocazione dell'enorme pala d'altare sulla parete di fondo dell'abside, dove poco polo la videro i commissari delle soppressioni napoleoniche. Sul retro furono applicati, nel XVII secolo, dei veri e propri altarini cartacei, costituiti da stampe ritagliate e icollate con immagini della Madonna r di un ecce Homo, circondati da altri fogli con angeli e cherubini. L'opera è uscita dal museo solo due volte, in occasione dei due conflitti mondiali. La lunga scritta, sempre sul retro, ricorda il suo trasferimento a Roma dal 1917 al 1921, in occasione del primo conflitto mondiale. l'operazione fu condotta da Mario Salmi e da Ettore Modigliani, allora direttore della Pinacoteca. Durante la seconda guerra mondiale, l'opera fu trasferita nel monastero benedettino di Pontida, con un altro dipinto marchigiano di grande formato, la tavola di Gerolamo genga (sala XXIV). Tornata a Brera nel 1950, come documentano le firme degli operai vergate a matita blu sulla carta delle incisioni, la pala non è stata più spostata dalla parete dove, dopo il restauro del 2002-2004, è tornata in una nuova cornice. |